lunedì 22 aprile 2013

“Get your rock‘n’roll on, come on, get the Blues Explosion”

SOMETHING ABOUT THE JSBX


Jon Spencer? L’apoteosi del sociopatico, misantropo, “abusatore” di droghe e dintorni. Il classico tizio da cui ci si aspettano o eccentricità dal sapore geniale, o squilibri psichici da serial killer ricercato in almeno tre continenti. Il suo ideale artistico nasce alla Brown University dove aspira a diventare videomaker, e si sbatte come un mulo, tipo girando un corto in cui sperimenta su se stesso la capacità anale d’inglobare oggetti dalla forma aerodinamica.

Un giorno va a sentire i Jesus and Mary Chain e decide che deve regalare al mondo la sua monumentaria presenza sul palco: non si risparmia in insulti al pubblico, savoir-faire che procurerà a lui e al suo primo gruppo, i Pussy Galore, non pochi indici puntati contro dai moralizzatori dell’ultimo minuto.


Fatto sta che Jon è in perenne stato d’insoddisfazione e caos interiore: cambia di continuo il nome e la formazione della band, per lo più facendo scappare gli altri componenti che, se non erano fatti quanto lui, a reggere la situazione non ce la facevano proprio.

E’ a Memphis che scopre la sua affinità elettiva con le sonorità blues: torna a New York e si lancia nella stesura di altri testi. Arruola il suo coinquilino, Judah Bauer (chitarra), e coinvolge Russel Simins, batterista degli Honeymoon Killers, band con cui suonava nel frattempo.
Da questo momento per i Jon Spencer Blues Explosion e il loro alternative punk’n’roll sarà un progressivo affermarsi come una tra le band che caratterizzerà quegli anni di fervore erotico-musicale. Ai musicofili odierni tocca pensare con nostalgia ai tempi andati, mentre fanno un rapido confronto con la nostra generazione: siamo soggetti all’aggressiva attività di commercializzazione di certe case discografiche che fagogitano adolescenti spara ormoni. E a forza di farci bombardare da questi ritmi topexan-pop il rischio è che diventino pure orecchiabili.
Comunque i JSBX riescono a ri-accattivarsi i favori della critica aggiudicandosi un paio di chitarre di dubbia qualità e un theremin, destinato a diventare un prolungamento degli arti di Jon; trovata la sua reale dimensione, l’approccio sul palco cambia drasticamente: dagli incitamenti all’odio e intolleranza, all’uso del microfono per invogliare i presenti a rendere quel live il concerto della vita. Ci vuole poco perché sia investito dello status di Icona.
JSBX LIVE DETAILS
Questo è ciò che ho trovato di fronte a me quando i JSBX sono saliti sul palco Molo 18 di Torino, dopo l’apertura del trio ispanico-svedese Mentalettes, già loro supporter nel tour dello scorso dicembre.
La sala è gremita di gente carica di aspettative (comprensibile, la band si è fatta attendere ben otto anni prima di sfornare un altro album) e di alcool misto a rock-attitude. La fascia di età è molto estesa: dagli JSBX-addicted dagli albori, ai giovini pischelli che hanno scoperto di recente i loro album pionieristici. Minuti di prove tecniche ma ecco che la signora sfiga fa la sua entrata in scena al primo pezzo: la voce scompare ma il set aggressivo di Bauer e Simins prosegue indisturbato.
I dodici brani autoprodotti di “Meat+Bone” rispecchiano l’immediatezza del titolo dell’album: efficaci, diretti. Nessun tentativo di rinnovare l’identità della band (come accadde con Plastic Fang, 2002), nè traccia di featuring “pretenziose” (DJ Shadow, Dan the Automator, Chuck D in “Damage”, 2004). Dal pezzo di apertura, la frenetica Black Mold (“Are coming down, the march the planet, black will grow, black mold!”), al bucolico ritmo di Bag of Bones e della sua armonica, il riff di Boot Cut, passando per la provocatoria e autoreferenziale Get your pants off!, con i suoi ritmi funky (“Get your rock‘n’roll on, Come on, get the Blues Explosion”), la sezione ritmica dell’incazzatissima Danger, l’old style di “Unclear” che strizza l’occhio all’elettronica, sino alla strumentale e conclusiva Zingar: “Meat+Bone” prosegue sulla linea che ha gettato le basi di band come White Stripes (RIP) e Black Keys, i due nomi contemporanei che più vengono ricollegati alla JSBX, e che oggi vantano più sold out della loro stessa matrice.
Mentre Crozza incassava botte di “tornatene a casa!” dal palco di Sanremo, e la Juventus terminava la sua partita di Champions, uno zoccolo duro di pubblico torinese ha assistito ad uno spettacolo che tutto aveva di esplosivo. E di psicotico. Come l’agghiacciante voce che ha rimbombato dagli altoparlanti durante tutta la pausa del live (verosimilmente una preghiera al contrario), o il tizio pazzo che, scalciando e scapocciando contro il vuoto come fosse un Holly col suo pallone immaginario, ha creato attorno a sé un diametro notevole di vuoto cosmico.
Personaggi improbabili a parte, musica furiosa: alla faccia butterata del topexan-pop.

mercoledì 5 dicembre 2012


KINDNESS

Taglio la notte invernale in bicicletta, arrancando al Molo 18 di Torino. 
L’aria lungo il Po è gelida e le guance si bagnano di lacrime che nascono per il troppo freddo. Parcheggio il bolide e noto con sospetto che nessuna luce è accesa, non c’è anima viva intorno a me, tutte le entrate sembrano sprangate. No, dai, che abbia davvero sbagliato locale? Mi guardo attorno cercando visi amici o semplici sguardi estranei di conferma. 

Nel buio in lontananza intuisco tre figure che si avvicinano, una coppia e un ragazzo con cappellino da skater e pinocchietto alla Blink, mi fa ‘ciao’ con la manina.“Scusa, è qui il concerto di Kindness?”, ricevo un “What?” come risposta. Do un cinque mentale alla zia fortuna, mi aggrego alla crew dell’artista ambient funk e scambio due parole con Joe, tuttofare della band, sfoggiando un inglese da video tutorial di John Peter Sloan.

Camerino, massì scrocchiamo sia l’entrata che del vino, comincia il sound check. Poche persone sotto il palco, forse é ancora troppo presto, il batterista arriverà in ritardo. Purtroppo il numero dei presenti non subirà un picco in ascesa.  Ogni membro della band è in postazione: coriste in coordinato con infinite gambe fasciate da pantaloni di pelle, batterista pervenuto, Adam Brainbridge riempie la stanza con le ballate atmospheric di Cyan.

 Per i muri del Molo vibra la rotondità del basso che si fa largo tra le parole della canzone. Inaspettatamente Adam scende dal palco e iniza il tour dei presenti a cui avvicina il microfono: “Hi! What’s your name?”, tra sorrisi imbarazzati e strette di mano, s’instaura una corposa atmosfera da salotto.

Nonostante il discreto riscontro della serata, non c’è disagio nei gesti di Adam: esce di scena e ritorna armato di ombrello rosso; da’ il via ad un’interpretazione di Doigsong arricchita di piroette e vaghe mosse alla Marcel Marceau. La sua voce saturata scandisce un riverbero per tutta la stanza intonando Swinging Party, le coriste collaborano a pieno regime nel completare un’esecuzione che raggiunge il surreale quando decide di spostare a centro palco un divanetto bianco.

Pupe sedute sui braccioli laterali, Adam è al centro del sofà: eppure manca qualcosa. Scende nuovamente per recuperare tre ignari spettatori, tra cui la sottoscritta, che piacevolmente sorpresi e il giusto imbarazzati, diventano parte integrante della scenografia.


Gee Up, That’s alright, House. Il live conclude con Gabriel, cover di Roy Davis, pioniere dell’house di Chicago. Sette pezzi vivi, intensi ed energici, arricchiti da una cornice di croccante eleganza e frizzanti sfumature vintage; il perfetto connubio di un’artista che sotto un’invidiabile cascata di capelli recita cosciente:“World, you need a change of mind”. 


Video del live al Molo 18:

martedì 4 dicembre 2012


E’ la sera di venerdì 30 Novembre e sta piovendo, a Torino. 
Il freddo invernale inizia a farsi pungente tra le vie del centro illuminate per Natale. Prendo l’ombrello, taglio per il Parco Reale dove ho appuntamento per andare a sentire il concerto dei TOY allo Spazio211: sono dubbiosa, ho ascoltato il disco a ripetizione per giorni cercando di capire in quale situazione la loro scarica di melodie rock psichedelico un po’ datato siano più godibili, ma resto confusa. Non riesco ancora ad apprezzarli.

Vedo Tom Dougall aggirarsi per il locale ed è proprio come me lo aspettavo dopo aver visto alcune video interviste: alto, asciutto ai margini della magrezza malsana, il caschetto con riga in mezzo gli fa cadere ciuffi di capelli sugli occhi truccati. Cammina con una compostezza altolocata che fa a schiaffi con il tic compulsivo di spostarsi i capelli al lato del viso con entrambe le mani. Sembra timido e impacciato, un po’ imbranato se vogliamo, poi sale sul palco, afferra la chitarra consumata, il legno è completamente scrostato ai lati. Circondato dal resto della band si veste di una grinta educata che m’impone di mantenere lo sguardo fisso su di lui, completamente catturata.

L’intro di Colors Running Out esplode, la sua voce rappresenta Tom più di qualsiasi parola si possa spendere per descriverlo: è introversa, cupa, malinconica. Chitarre, basso, batteria e tastiera hanno la meglio sul suo timbro incerto. Inizio a domandarmi come abbia potuto non afferrare prima la grandezza di questo gruppo che veste di un’eleganza così poetica da risultare decontestualizzata, cantautori appartenenti a un’epoca  trascorsa tempo fa’.

Ci sono Ian Curtis, Velvet Underground e Robert Smith sul palco assieme a loro: sono cinque ragazzi che reincarnano un Rimbaud consumato con chitarra alla mano che sul palcoscenico istiga i presenti alla sporcizia del rock.
Surriscaldano le pareti dello Spazio211 con i riff prepotenti  e il drumming settato dei sette minuti post-punk shoegaze di Left Myself Behind alternati alla candida inquietudine di Make it mine. Undici brani che spaziano tra i pezzi dell’EP e l’omonimo album di debutto pubblicato il 10 di questo settembre sotto la Heavenly Recordings e prodotto da Dan Carey (Hot Chip, Chairlift, The Kills).

Dead and Gone, Drifting Deeper, Motoring, Heart skips a beat si rincorrono tra i capelli troppo lunghi del bassista, l’abito aderente della tastierista, la discreta coordinazione estetica a prova di metronomo di questi cinque ragazzi londinesi che hanno affascinato il pubblico dal primo beat. 

Il concerto termina con il kraut-rock di Kopter, torno a casa con un disco in più e la soddisfazione di aver lasciato ogni dubbio al primo giro di basso. 


martedì 27 novembre 2012

YOUNG MAGIC



«Una rosa è una rosa e solo una rosa. Ma queste gambe di sedia sono gambe di sedia e sono anche san Michele e tutti gli angeli.»
(Aldous Huxley, Paradiso e inferno)


Per il loro album di debutto il collettivo Young Magic composto da Isaac Emmanuel, Melati Malay e Michael Italia abbraccia la scelta di un titolo evocativo: Melt, "Fondere", ha in sè la più completa e sfaccettata introduzione agli undici brani che compongono questo inquieto quanto suggestivo Lp, definito da Q Magazine come "L’unione dei battiti del mondo". 


Isaac e Michael sono australiani espatriati, Melati è indonesiano nativo: scrupolosi viaggiatori famelici d’ispirazione, visionari di suoni devoti a un ordine sacrale, fedeli a una cleptomania musicale imponente, scrivono i brani in maniera frammentaria lungo il tempo, inglobando, masticando e vomitando influenze dai luoghi più disparati in cui hanno registrato.


S’incontrano a Brooklyn nel 2007, trascorrono i successivi quattro anni adempiendo la loro vocazione gipsy. Migrano in Sud-America, attraversano l’Europa tenendosi stretti gli attrezzi di registrazione portatile e reinventando i rumori che tempestano il quotidiano. Gli strumenti classici sono accantonati, salvo brevi cameo. Benvenuto il tintinnio delle monete sul tavolo e lo squillo di telefoni e orologi, diventati parte integrante di un background musicale che fa dei suoni routinari uno tra i più interessanti picchi della sua eccentricità. Sintetizzatori, campionatori e pedali loop sono spontaneo prolungamento degli arti di Isaac, Melati e Michael, con cui diventano un ibrido, un unico essere pragmatico.

Nel febbraio del 2011 pubblicano sotto la direzione dell’etichetta discografica Carpark Records: in ogni brano si coniuga una molteplicità di generi che rende arduo il processo standard di etichettamento, liberandoli e al tempo stesso condannandoli a essere indefinibili, complessi mediatori di sensazioni elettriche che tramutano in disparate esplosioni d’arte, che siano musica, video, colonne sonore o installazioni, gli Young Magic mirano alla forma, al beat perfetto.

Sono in salotto, abbasso le tapparelle e spengo la luce. Dalle casse del computer esplode un lamento timido, insicuro, quasi impacciato. Alzo il volume nel momento stesso in cui la musica si evolve e muta carattere: prendono forma ritmi serrati, superbamente alternati alla calma; Sparkly e Slip Time inaugurano un viaggio lungo trenta minuti attraverso quelle che Aldous Huxley definirebbe "Le porte della percezione"




You with air assume i connotati di un cantico mistico: soggioga con una base insistente, travolge con una cantilena ripetitiva che perpetua sessualità, erotismo; introduce quella preghiera sciamanica che è Yalam, 1 minuti e 56 secondi in cui è riassunto il desiderio del gruppo di mirare a "Un’esplorazione nel subliminale, alla ricerca del sublime", come rilasciato dagli stessi in un’intervista.

Il trio tiene stretta la presa a uno stile musicale ampio, molto ampio, fin troppo: fa eco negli stili più diversificati annullandone i confini. Lascio che la testa e le spalle seguano l’andamento di Night In The Ocean, mi faccio trasportare.

L’intro di The Dancer concede un momento di estraneazione da quello che diventa il ritmo decisivo, un battito croccante, aggressivo.  A gran voce rimbombano sonorità tribali africane che fanno da sfondo al lamentevole richiamo di una voce angosciata e seducente.  A seguire c’è Cavalry, la perfetta premessa onirica a Sanctuary, un brano sognante, morbido, in cui si fa largo un trip-hop tenue, addomesticato.

Con Drawning Down The Moon s’interrompe un nostalgico viaggio vissuto per osmosi.

Continuo a impostare repeat, ma non mi basta, ascolto l’album ancora una volta.  La sensazione è quella d’aver letto un diario di viaggio intrinseco di domande, di segreti che gli autori hanno intenzionalmente voluto celare, lasciando all’occasionale spettatore un rimando di carnale irrequietezza.

Riapro le tapparelle, s’è già fatto buio fuori. Mi appoggio alla finestra, la luce della stanza rimanda al riflesso sul vetro; mi ci perdo e mi viene da pensare: se campionatori e Young Magic fossero già esistiti nel1956, chissà cos’avrebbe scritto Aldous Huxley ascoltando Melt mentre era in botta da mescalina.

Ciò che è certo è che se potessimo scegliere la tracklist dei nostri sogni, o incubi, non avrei alcun dubbio:  Melt entrerebbe di diritto nella colonna sonora della mia non-esistenza rem.

QUI potete ascoltare l'intero album in streaming.

venerdì 27 luglio 2012

BAT FOR LASHES
Niente paesaggi cupi e maschere alla Donnie Darko.
Assenti le atmosfere dark punteggiate di sfarzi mistici e colori eccentrici.

Siamo nel dietro le quinte di un teatro vuoto, desolato. Il nostro sguardo è ricambiato da quello di Natasha Khan (Bat For Lashes), che ci racconta di una storia di riscatto e decadenza. E' il pianoforte a rompere il silenzio: ritma la voce straordinariamente calda e intensa di questa cantautrice inglese di origini pakistane, che attraverso le sue composizioni canta di ambigui terrori e ingenuità, dove il sacro e profano tingono le sfumature.
Con Laura si è trascinati in una moratoria sul senso dell' esistenza, la narrazione di paure che lasciano spazio a prospettive rassicuranti: "you'll be famous for longer and then, your name is tattooed on every boy’s skin, uh Laura you're more than a superstar".

Dopo il successo del primo album Fur and Gold, uscito nel 2006 e anticipato dal singolo The Wizard, Natasha ha mantenuto alto l'indice di aspettative con Two Suns, risultato dell'ispirazione che ha tratto dal suo temporaneo trasferimento negli Stati Uniti e attraverso il quale emerge Pearl, descritto come il suo alter-ego « ...una femme-fatale bionda, distruttiva, che pensa solo a se stessa. Una personalità che agisce come un velo sulla Natasha Khan più mistica e spirituale».

A giugno è stato annunciato che il 15 ottobre uscirà il terzo capitolo della saga musicale di Bat For Lashes, The Haunted Man, per il quale la cantante si è liberata dei suoi caratteristici ornamenti rituali arricchiti dai vari piumaggi per mettersi completamente a nudo. Una semplicità disarmante, ricca di un significato così profondo che solo il minimalismo è in grado di dare.
Questo singolo di lancio, già testato e acclamato in numerosi live, aumenta l'attesa per quello che si preannuncia essere l'album che confermerà Bat For Lashes alla vetta del successo maturo.

LAURA
You say that the evil left you behind
Your heart broken,
A part of you died

Keep your arms around me and softly say
Can we dance upon the tables again?

When you smile so wide
Your heels are so high
You can’t cry, get your glad rags on
And let’s sing along
To that lonely song
Is a train that crashed my heart
You’re the glitter in the dark, Uh, Laura you’re more than a suṗerstar
And in this horror show
I’ve got to let you know
Uh Laura you’re more than a superstar

We seen each other stuck in a pale blue dream
And your tears fell hard on my bed sheets
Keep your arms around me and softly say
Can we dance upon the tables again?

When you smile so wide
Your heels are so high
You can’t cry but you’re glad
Vibe’s on and let’s sing along
To that lonely song
You’re the train that crashed my heart
You’re the glitter in the dark
Uh, Laura you’re more than a superstar
You’ll be famous for longer and then
Your name is tattooed on every boy’s skin
Uh, Laura you’re more than a superstar

You’re the train that crashed my heart
You’re the glitter in the dark
Uh, Laura you’re more than a suṗerstar
And in this horror show
I’ve got to let you know
Uh Laura you’re more than a superstar
You’re more than a superstar

mercoledì 18 luglio 2012

"That's why I go for that rock'n'roll music
Any old way you choose it
It's got a back beat, you can't blues it
Any old time you use it
It's gotta be rock'n'roll music
If you wanna dance with me"


Nell'enorme mole di produzione cinematografica dedicata alla loro storia, Backbeat racconta in modo un po' didascalico il dietro le quinte degli albori dei Beatles, con uno sguardo mirato alla triste biografia di Stuart Sutcliffe. 'Stu', l'allora bassista della band, enigmatico artista proveniente da Edimburgo e grande amico di John, è stato voluto nel gruppo da quest'ultimo per le sue evidenti innate abilità di tombeur de femmes: vende un suo quadro, si compra un basso elettrico e inizia a violentarlo, nel senso più stretto del termine.

Ingaggiati all'Indra (locale nella zona a luci rosse di Amburgo), il 17 Agosto del 1960 John LennonPaul McCartney, George Harrison, Stuart Sutcliffe e Pete Best consumano il primo concerto sotto contratto a nome The Beatles; passa poco all'entrata in scena di Astrid Kirchherr, la carismatica fotografa di cui s'innamora Stu, ergo colei che ha sovvertito il look dei Beatles improntandogli quel taglio di capelli con stivaletto a punta annesso, diventati il loro biglietto da  visita per i primi due anni della scalata al successo.


"È stato ad Amburgo che noi abbiamo davvero fatto progressi. Dovevamo provare tutto quello che ci passava per la testa. Non c'era nessuno da cui copiare. Suonavamo quello che ci piaceva di più, e ai tedeschi andava bene così, purché il volume fosse alto."
(John Lennon)


L'ostentato disappunto di Paul riguardo l'evidente inadeguatezza musicale e il desiderio di maturare le proprie doti artistiche, spingono Stu ad abbandonare la band, iscriversi all'Hamburg College of Art e restare con Astrid dopo il rientro del gruppo in UK nel 1961.

«Some are dead and some are living / In my life I've loved them all»
(In my Life- The Beatles)

10 Aprile del 1962, a soli 21 anni, Stu muore nella soffitta del suo appartamento, stroncato da un aneurisma cerebrale.

Un'identità così drammaticamente poetica da assumere toni romanzati. Un personaggio a margine dell'immensa epopea dei Beatles, ma che nonostante abbia rivestito il suo ruolo sullo sfondo chiaroscuro della band, ne ha marcato indelebilmente il fascino eterno.

Per la colonna sonora di questo film (che dal punto di vista biografico non ha trovato d'accordo Sir Paul) sono stati uniti nomi tra i migliori musicisti degli anni '90; la BackBeat band che, anche se per un breve periodo dal '93 al '94, vede insieme Mike Mills (R.E.M.), Thurston Moore (Sonic Youth), Dave Grohl (Nirvana, ora leader dei Foo Fighters), Greg Dulli (The Afghan Whigs), Dave Pirner (Soul Asylum) e Don Fleming (Gumball), ha suonato e riarrangiato le canzoni originali dei Beatles.
Il risultato potete ascoltarlo QUI.
                                                                          

venerdì 29 giugno 2012

VADOINMESSICO
Sotto le luci della ribalta londinese, Giorgio Poti (Italia) Salvador Garza (Messico) e Stephan Miksch (Austria) tra jacket potatoes e fish&chips fondano i Vadoinmessico, a cui si aggiungono Alessandro Marrosu (Italia), e Joe White (UK).

Accomunati dalla passione per il folk psichedelico, nascono i primi testi di Giorgio, avvalsi di una notevole (quanto rara) qualità di stesura: i riflettori sono puntati su tematiche un po’ nostalgiche, di storie passate, amori non consumati. 

Il loro album d’esordio è “Archaeology of the future”, pubblicato il 6 Marzo 2012 sotto la PIAS per la regia di Craig Silvey (Arcade Fire, The Horros e Arctic Monkeys,): il risultato sono 13 brani dai suoni dolcissimi, pastellati, caldi e un po’ allucinogeni. L’uso di banjo e pedal steel guitar (conosciuta anche come ‘chitarra hawaiana’) trascinano tra percussioni che ricordano i Mumford and Sons, Naked and Famous o Caribou.
Con ‘Archaeology of the future  mille campanelle riempiono la stanza, mentre fanno eco suoni squillanti ritmati da battiti di mani, tamburi. Il distacco tra le strofe e il ritornello è impercettibile, tutto si sussegue liscio come un mojito nelle calde sere d’estate. Un’ottima partenza.
Pepita, queen of the animal’, ‘Teeo’, ‘In spain’ trascinano in un’atmosfera da festa sudamericana mentre ’The adventure of a diver’, più angosciata, cupa, fa emergere i toni malinconici che anticipano ’Me,desert’, inquietante traccia di 1:27 con Carmelo Bene in sottofondo, la quale da il giusto stacco inaspettato tra la prima e la seconda parte del cd, preparando a un’altra ondata di suoni positivi, morbidi, colorati. 
Con ‘Fleur le tue’ nasce un parallelo con i Phoenix, ’Notional towns’ alza la percentuale dei ritmi rockabilly, spezza il ritmo e sonda il terreno per ‘The colours are strange’, dove la voce ha il sopravvento sulla parte strumentale, entra in scena il tocco country e vengono sfiorate punte di synth pop.
Pond’ è un continuo cambiare rotta ritmica, ’Solau‘ adotta una veste più acustica, rievoca atmosfere da rito tribale: in un attimo siamo dall’altra parte dell’emisfero mentre assistiamo ad una cerimonia tossica per graziarsi il dio della pioggia. 
Archaeology of the future è un album che delizia orecchie, occhi e palato. 13 brani da mangiare in un boccone, famelici, insaziabili.


Bisogna fare di sé dei capolavori. Io ho trovato da molti anni, da molti millenni dentro di me il deserto". 
Carmelo Bene